La gondola è solida, spaziosa; l'imbottita del sedile a parapetto è piacevolmente soffice, coperta di un vellutino morbido al tatto, voluttuoso. Il cielo è oscuro, di quella densità profonda che hanno solo le notti italiane. Sopra le volte più nere, non rischiarate dalla Luna, lo scintillio delle stelle si scioglie in polvere brillante.

Il gondoliere, con due strattoni sul remo si stacca dalla riva. Un bambino - un nipote, un figlio, chissà - gli si accovaccia ai piedi con una lanterna sulle ginocchia. Accenna in silenzio un sorriso, non dà alcun fastidio. La gondola scivola muta tra esili strettoie di pittoresca miseria. Ci si trova in movimento tra quegli stessi canali che sempre lo sguardo scavalca dai ponti.

Che pace. L'imbarcazione scivola leggera sull'acqua, il sottile quarto di Luna scompare dietro la mole marmorea di un grande ponte, col gondoliere che dice: "Rialto, siòr". Dolce è il rumore delle onde che tentano di accarezzare furtivamente lo scafo, appiattendosi via via, scivolando lontane ma poi tornando, ancora più ostinate. I palazzi si specchiano leggiadri nel Canal Grande; sembrano oscuri, assonnati, ripiegati  a dormire su se stessi.

Le due, le due e un quarto, le due e mezza. Suonano, da tradizione italiana, i quarti d'ora dall'orologio di un campanile. Nitidi rintocchi accompagnano la gondola che imbocca canali ora più stretti ora più ampi. Risuonano d'eco, come giungendo da un luogo remoto, mentre una lieve foschia vela gli occhi e avvolge la barchetta fino a farla scomparire. I remi che accarezzano l'acqua diventano la chiave d'accesso al proprio paesaggio interiore, lo spirituale conforto verso isole solitarie. Il fondo della barca s'alza e s'abbassa, s'alza e s'abbassa ancora, galleggia leggero, schiaffeggiato da minuscole onde. 

Il bimbo lascia ciondolare la lanterna, poi la poggia all'orlo dello scafo e vi osserva la luce riflettersi sulle onde, pigra e torbida come una candela che va spegnendosi. Osserva il vento che gonfia la camicia del suo capo, folate che scherniscono il suo profilo asciutto facendolo ingobbire. D'improvviso la nebbia si scioglie ma davanti resta tutto buio, una foresta nera di richiami e di soffuso mistero. In fin dei conti è bella questa notte: si arriva addirittura a credere di essere animali selvaggi, predatori che tendono agguati, o forse, solo semplici uomini liberi di raccontare storie, di immaginare perfino nuovi mondi.

Profumi esotici solleticano le narici, Un'unica gondola in balia della notte passeggia sull'acqua come godendosi una solitudine a lungo cercata, tra splendidi palazzi ricamati d'Oriente, sculture di vecchi draghi, e pallidi bagliori di lanterne appese ai muri, piccoli, vecchi fari che indicano la via. Fino a San Marco, fino al campanile più grande, più alto. Quello dell'alba.

Venezia dorme. O forse no, è il contrario e tutti sono svegli, pur restando in silenzio. Una città su una laguna, scaturita dall'acqua, che vive d'acqua, da sempre rigogliosa di figure misteriose: basilischi, leoni alati, draghi di Marco Polo, lance di Attila. Ma anche il cotto delicato, il marmo lucido degli scalini, l'anello d'oro del Doge, la curva melodiosa della gondola, di questa nostra gondola. Dolce come il suono di un violino.

Il bimbo racconta la storia misteriosa del santo e del drago, la leggenda di San Giorgio che venne a Venezia su un cavallo bianco e tagliò la testa al mostro. Sembra un mulino che macina, ci mette la sua farina. Una narrazione genuina, chiara, leggera come un alito di vento che rischiara la notte. Perché in fondo, non ci può essere favola senza lieto fine.