Riforma delle pensioni, Intesa Sanpaolo, i bond convertendo Bpm e chi più ne ha più ne metta: le class action non esistono da molto tempo nel nostro Paese, ma le iniziative e le proposte non sono certo mancate. Un problema c’è, però. In effetti, si possono proporre tutte le azioni risarcitorie collettive che si vogliono, ma se non si supera l’ultimo ostacolo della Corte d’Appello tutto diventa inutile. Quest’ultima ha il compito di rendere ammissibile l’azione e finora le iniziative che possono vantare un traguardo simile si contano sulle dita di una sola mano.

Proprio per questo motivo, le class action meritano una riforma, come è previsto nella bozza del decreto sulle liberalizzazioni che il governo Monti sta attualmente studiando.

L’obiettivo è quello di ampliare il raggio d’azione dei risarcimenti collettivi, ma anche di semplificare la procedura, senza dubbio molto ambigua. Questa riforma deve riguardare l’articolo 140-bis del Codice del Consumo, introdotto pochi anni fa proprio per le class action, uno strumento di derivazione anglosassone. Come hanno sottolineato molte associazioni dei consumatori, il rapporto tra questi ultimi e le imprese è troppo debole e un motivo forse c’è, vale a dire il fatto che l’articolo in questione sia stato praticamente dettato dalla Confindustria.

Ma cosa ci insegna la storia, a dire la verità molto breve, delle azioni collettive? Il 2011 ha fatto registrare un aumento importante delle iniziative: tra quelle più significative si possono segnalare l’azione contro i rincari dei traghetti (luglio 2011), gli importi troppo bassi delle pensioni (ottobre), la già citata riforma previdenziale (ad opera del Codacons) e perfino contro le famigerate agenzie di rating.

Quante di esse ha avuto successo? Nessuna, dato che in tutti questi casi non è stata riconosciuta l’ammissibilità da parte della Corte d’Appello. L’unico successo lo può vantare Altroconsumo con la sua class action avviata contro le commissioni di massimo scoperto sui conti correnti di Intesa Sanpaolo. Un bottino piuttosto magro e che ovviamente ha lasciato tutti con l’amaro in bocca.

Che senso ha conservare uno strumento che nella sua conformazione attuale è inutile nella maggior parte dei casi? D’altronde, la legge esclude persino che vi sia una punizione severa: il risultato che può ottenere una class action si limita al riconoscimento dei danni subiti, ma di sanzioni e multe neanche l’ombra, il tutto nel nome del valore che si vuole assegnare al danno morale ed esistenziale. La beffa, infine, consiste nella possibilità che il consumatore perda la causa e sia costretto a pagare la pubblicizzazione della sentenza; una maggiore tutela è necessaria, ora bisogna attendere il decreto sulle liberalizzazioni e valutare le possibili novità.