Nel nostro Paese gli addetti alle professioni sociali (sanitari, insegnanti, medici, educatori) non sono pochi ed ogni giorno, in silenzio, affrontano situazioni difficili. Ma le professioni sociali hanno bisogno di aiuto? Per rispondere si può provare a far riferimento a 2 tipi di fattori: strutturali e personali.

Tra i primi si deve tener conto dei tagli che in questi ultimi anni hanno colpito duramente il welfare in nome di una spending review acritica ed orizzontale.

Da un punto di vista normativo appare pretestuoso pensare che gli operatori sociali “resistano” nella loro professione per 42 anni (così come previsto dall'attuale legislazione pensionistica).



Ma accanto ai fattori strutturali non si può negare che ne esistano altri, di tipo personale.

Si pensi alle caratteristiche personologiche di molti addetti ai lavori che, purtroppo, appaiono fragili caratterialmente, incapaci di pensare e ripensare il  lavoro terapeutico; di progettarlo sulla base di tempi certi e di verificarlo sulla base di parametri riscontrabili.

Non mancano poi, purtroppo, operatori sociali con modalità relazionali che nascondono problematiche personali: dall’ansia all’impazienza, dalla superficialità all’incapacità di trattamento.

E allora che fare?

  1. Si potrebbe ricorrere a più severi meccanismi di selezione per chi si appresta a svolgere le professioni sociali, in cui si badasse non solo agli aspetti nozionistici, ma si valutassero esperienze pregresse e capacità relazionali, empatiche, visione del lavoro.
  2. Non di meno, a livello normativo, occorrerebbe provvedere a meccanismi di rotazione del personale: per le professioni sociali andrebbe prevista una collocazione in servizi diversi almeno ogni 10 anni. Di ciò ne beneficerebbero non solo gli operatori (con meno rischio di “burn out”), ma pure e soprattutto i destinatari degli interventi.
  3. Non sarebbe male poi, per molti operatori, rispolverare concetti come umiltà, regole, consapevolezza dei propri limiti, controllo delle proprie istanze di onnipotenza ed onniscienza, capacità di vedere a ciò che si fa come un pezzo di un sistema di variabili molto più ampie.
  4. La carenza di risorse andrebbe poi sicuramente affrontata a livello politico nella consapevolezza che un Paese capace di occuparsi adeguatamente di “chi è più indietro” avrebbe una maggiore tranquillità sociale e risparmi notevoli nel welfare.
  5. Oggi, però, non prendere atto che la classe politica sembra essere sempre più incapace ed insensibile, porterebbe poco lontano. Ed allora una prassi operativa che si fondi su obiettivi dimensionati ed interventi graduali, verificabili e realistici in rapporto alla tipologia dell’utenza appare ormai non solo utile, ma indifferibile, per tutti coloro che svolgono professioni sociali.

Mettersi in questa prospettiva significa anche modificare lo sguardo dei più, esterni al settore, che varia da un sentimento di compassione ad uno eccessivo di ammirazione per i “quasi missionari”, con tutte le aspettative magiche collegate.

Ma ad agire come configurato sono disposti gli addetti alle professioni sociali?

Ogni superman, d’altronde, ha la sua criptonite ed è venuta l’ora di ammetterlo!