Una sentenza raccapricciante, a tratti disumana quella emessa dal giudice del tribunale di Khartum, in Sudan. Meriam Yeilah Ibrahim, una donna di 27 anni all'ottavo mese di gravidanza, è stata condannata all'impiccagione per aver commesso reato di "apostasia", ossia per aver rinnegato la propria religione. Il tribunale ha pure stabilito che, prima di essere uccisa, la giovane mamma subisca cento frustate per adulterio, perché sposata con un non musulmano.

La ragazza ha già un figlio di 20 mesi che si trova con lei in carcere: il magistrato l'ha condannata sostenendo che ha abbandonato l'Islam, dato che il padre era musulmano, mentre la tortura dei cento colpi di frusta è stata inflitta perché ha sposato un cristiano, matrimonio non riconosciuto valido dalla "Sharia", e dunque considerato come adulterio.

Un'associazione che lotta per la tutela dei diritti umani, la "Christian Solidarity Worldwide" ha indagato sulla vita di Meriam, ricostruendone le fasi salienti e dimostrando così l'assurdità della condanna a morte decisa dal tribunale sudanese. La giovane è nata sì da padre sudanese musulmano, ma siccome questi l'ha abbandonata quando aveva appena 6 anni, da allora la ragazza è cresciuta con la madre, etiope e di religione cristiana ortodossa. Ecco perché Meriam si è sentita legittimata a sposare un non musulmano, anche se il matrimonio è considerato nullo dal diritto sudanese legato alla religione islamica.

La crudeltà della sentenza nei confronti di questa giovane mamma sta anche nel fatto che dovrà essere impiccata quando porterà ancora in grembo il bimbo di cui è attualmente incinta: evento mai avvenuto finora, poiché in altre occasioni il governo sudanese ha aspettato che la condannata partorisse prima di ucciderla. Amnesty International è scesa in campo definendo "ripugnante" la decisione di fustigare una donna per aver scelto di sposare un uomo di un'altra religione, e ancora di più si è indignata per una sentenza di condanna a morte legata a motivi religiosi.

Le ambasciate di Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna e Olanda si sono attivate per provare a difendere la povera Meriam, stilando un comunicato nel quale chiedono che venga sospesa una condanna all'impiccagione che non rispetta il diritto alla libertà di religione sancito dal diritto internazionale e dalla Costituzione ad interim del Sudan. Infine, per cercare di salvare la giovane donna e il suo nascituro da una morte assurda e atroce, le ambasciate occidentali presenti a Khartum hanno chiesto al tribunale di accostarsi al caso con "giustizia e compassione", valori ampiamente presenti nella civiltà sudanese.